“The Brutalist” è un film che non ti togli dalla testa. Almeno per un po’. E forse è questo il suo scopo, turbare, disturbare, far pensare. Non è un film come tanti e lo confermano il Leone d’Argento a Venezia, 2 Golden Globe, 10 candidature agli Oscar.
Dopo aver affrontato tre ore e mezza di proiezione e il disagio provocato da certe scene, crude, spiazzanti, prima di decidere se è un bel film o no, bisogna lasciar sedimentare le emozioni e cercare, trovare, il senso di un’opera come questa.
Non è solo la storia di un architetto ebreo ungherese sopravvissuto al lager che cerca di rifarsi una vita in America e non è solo il racconto di chi scopre che anche nel paese che si vanta di esser la culla della libertà si può essere emarginati e sfruttati. Nel dare un volto al protagonista, Lászlò Toth, Andrien Brody si fa carico del suo ruolo disperato con un’aderenza alla realtà che merita l’Oscar, il suo personaggio sopravvive fra rassegnazione e ribellione in un mondo che lo rifiuta, al quale oppone la convinzione nella superiorità dei suoi progetti. E se dapprima la sua determinazione emerge timidamente, di fronte alle difficoltà via via cresce fino a diventare sprezzante distacco da tutto e da tutti.
Ma il regista trentaseienne Brady Corbet afferma di non aver voluto realizzare un film neo-realista, e infatti “The Brutalist” non lo è. Oltre a mostrare le vicende personali dell’architetto Toth, le immagini che scorrono sullo schermo seguono diversi filoni narrativi che veicolano il pensiero del regista.
Il primo riguarda il rapporto fra arte e capitalismo, fra espressione artistica e mercato. Il mai risolto rapporto di forza fra artista e mecenate è vecchio come il mondo e anche il cinema, si sa, è da sempre condizionato dalla difficoltà di trovare finanziamenti, così Brady Corbet porta dentro alla storia anche il suo vissuto, le difficoltà nel realizzare questo film di lunghezza fuori da ogni logica di mercato, fra alti e bassi durati sette anni.
Il secondo filone è legato al ruolo dell’artista nel mondo, al significato della sua opera per gli altri. Quando non è il viaggio a contare ma la meta, come si afferma nel film, allora la realizzazione di un progetto, di un sogno, vale la fatica di combattere per esso fino all’abbruttimento, perché poi il tuo sogno realizzato rimarrà lì, anche dopo di te e, forse, potrà contribuire a cambiare l’immagine del mondo. Può farlo un edificio, può farlo un film.
Il brutalismo a cui allude il titolo acquista vari significati oltre allo stile architettonico che proponeva soluzioni minimaliste nella ricostruzione dell’Europa degli anni ‘50. «La psicologia del dopoguerra e l’architettura del dopoguerra, incluso il Brutalismo, sono collegate» afferma il regista e infatti la brutalità dei sentimenti di rabbia e frustrazione, di abuso e insensibilità segnano i rapporti fra la famiglia Toth e quella dell’industriale Van Buren.
E fra le tante allusioni che Brady Corbet dissemina nel film c’è anche il nome del protagonista, nato dalla sua fantasia e che curiosamente corrisponde a quel László Toth, ungherese, che a Roma nel 1972 colpì ripetutamente a martellate, danneggiandola, la Pietà di Michelangelo.
Un film, “The Brutalist”, che va affrontato con il giusto spirito.
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