Zeng Chaolin, un saggio contro il capitalismo di stato maoista

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di Sinigaglia
«C’è un abisso che non posso superare.
Apparentemente largo pochi pollici,
si stende in realtà per migliaia di miglia.
È la distanza che separa l’umano dalla bestia.
Dovrei bere la dolce coppa e non l’amara,
ma disonorerei mio padre e mia madre!
E anche se attraversassi questo abisso,
la mia mente rimarrebbe per sempre dissidente»

Questo è un brano della poesia che Zheng Chaolin scrisse nelle carceri maoiste nel 1965, dopo una visita
della moglie (che per altro condivise il travagliato percorso di perseguitato politico del marito) alla quale
era stato ordinato di convincerlo ad ammettere le proprie “colpe” e sottoporsi alla “rieducazione”.
Figura poco nota in Italia – dove in passato si propagò una febbrile e superficiale infatuazione per il
“modello” maoista e dove oggi si consumano (ammirati, interessati o preoccupati) omaggi di rito, in
realtà spesso non meno superficiali, alla potenza economica cinese – Zheng Chaolin ha trascorso in
prigionia trentaquattro anni, sia sotto il regime nazionalista del Guomindang sia sotto quello maoista. Ha
così eguagliato il triste primato del rivoluzionario francese Louis Auguste Blanqui.
Ma chi era questo irriducibile dissidente (capace di mostrare nelle varie foto che costellano la propria
parabola biografica anche un incrollabile, intelligente sorriso)? Un’ottima risposta la fornisce una recente
pubblicazione: Zheng Chaolin, “Il capitalismo di Stato” (Movimento Reale, 2023), testo curato dal circolo
internazionalista “coalizione operaia” di Roma.
Zheng Chaolin, morto a Shanghai nel 1998, era un veterano del movimento comunista cinese, nel 1922
tra i fondatori in Francia della sezione giovanile del Partito Comunista Cinese. Avvicinatosi al trotskismo
e subendo di conseguenza le misure repressive del partito ormai incardinato nell’orbita stalinista, assunse
un profilo autonomo anche rispetto alla maggioranza del movimento trotskista su almeno due questioni
cruciali: la natura della guerra sino-giapponese (scoppiata nel 1937), che giudicò parte integrante
dell’imminente conflitto inter-imperialistico mondiale e soprattutto la natura sociale della Cina maoista.
Per Zheng Chaolin la vittoria del PCC nel 1949 non segna in nessun modo il passaggio della Cina al
socialismo. Non si tratta nemmeno, secondo il rivoluzionario cinese, della formazione di uno “Stato
operaio degenerato”, secondo la canonica formula trotskista. In Cina vige un sistema capitalista a tutti gli
effetti. Il potere assunto dal PCC non ha alterato la permanenza e lo sviluppo dei tipici rapporti sociali
capitalistici e semmai il compito di un marxismo autentico e coerente è cercare di capire le peculiari
forme, gli specifici caratteri del capitalismo di Stato, come si è realizzato in Unione Sovietica e in Cina.
Sono molte le ragioni che consigliano un’attenta lettura del testo di Zheng Chaolin e dei materiali che lo
accompagnano. Ci limitiamo ad indicarne un paio. In un’ epoca in cui prosperano rivoluzionari fasulli,
una redditizia retorica “controcorrente” e comodi eretici, è importante proporre una riflessione su una
figura di autentico rivoluzionario e sull’esperienza – appassionata, combattiva, difficile e osteggiata come
quella di ogni vero rivoluzionario – che ha costituito la sua esistenza. Oggi, inoltre, di fronte ai
giganteschi effetti globali della crescita economica cinese, ai contraddittori successi delle sue grandi
aziende e all’implacabile sfruttamento della classe operaia su cui si fonda questa epocale ascesa (elemento
spesso sottaciuto nella celebrazione o nella critica democratica e liberale al modello cinese), l’analisi di
Zheng Chaolin acquista un’ulteriore, intensa, vitalità. Continua a porre interrogativi e ad accendere
bagliori nella notte.

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