Calcio e cultura. in apparenza binomio impossibile

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di Guido Michelone
Calcio e cultura: in apparenza un binomio impossibile, una coppia scoppiata dopo poca
convivenza o, sportivamente, come due attaccanti in perenne disaccordo nel medesimo
squadrone al punto da annullarsi a vicenda? L’apparenza inganna dice il saggio:
metaforicamente parlando, la coppia resiste migliorando di giorno in giorno e i due giocatori
riescono, non senza difficoltà, a capirsi e a sfruttare al meglio le reciproche abilità: la forza
dell’uno, l’intelligenza dell’altro.
In realtà dunque il binomio calcio/cultura è possibile e in effetti a ben vedere, scendendo in
profondità, come auspicabile per ogni serio lavoro, si scopre che calcio e cultura hanno molto
in comune, benché occorra fare subito precise distinzioni, a iniziare dal calcio che, in questo
libro, viene raccontato nel duplice aspetto di sport praticato e di gioco osservato e mediatizzato;
per la cultura l’autore opera scelte personali, concentrandosi sul sapere umanistico in
particolare nei settori dell’arte, dello spettacolo, dell’informazione.
Per limitarsi al contesto italiano, il binomio calcio/cultura si avverte già a fine Ottocento,
quando arriva il football importato dagli inglesi e per circa un quindicennio svoltosi
prevalentemente in Liguria, Piemonte, Lombardia, attirando l’attenzione di un giornalismo e di
una letteratura locali che si stanno ormai modernizzando, sia pur in tono minore e minoritario:
le notizie e risultati di un match si limitano a qualche accenno di cronaca cittadina. Molti
analfabeti (allora circa il 90% della popolazione) imparano a leggere seguendo appunto gli
articoli sportivi su quotidiani e riviste.
Il giornalismo sportivo dal Novecento a oggi cresce moltissimo, fino a occupare, oltre la
carta stampata, spazi rilevantissimi nei mezzi di comunicazione di massa oggi tradizionali –
radio, cinema, televisione – e in quelli di ultima generazione – dai new media ai social media –
fin quasi risultare un mondo parallelo o persino complementare al calcio medesimo. Bisogna
però aspettare gli anni Sessanta del XX secolo per osservare il ruolo sempre più incisivo (e
pervasivo) della TV sia nel trasmettere gli eventi (la partita, in primis) sia nel commentarli.
La TV via via occupa simbolicamente le gradinate degli stadi che, a loro volta, tranne eventi
straordinari, hanno sempre meno presenze fisiche dirottate a fruire l’arte e lo spettacolo del
calcio con le dirette audiovisive. Anche i commenti pre e post-partita, grazie a programmi
specifici (o a intere reti tematiche) rimpiazzano il bar sport quale luogo topico di aggregazione
spontanea di tifosi amici e/o rivali. Da qualche anno il giornalismo sportivo del piccolo
schermo, un po’ come accade all’infotainment già da quarant’anni, unisce partita e commento
sovrapponendo le immagini della diretta ai giudizi dell’esperto: quest’ultimo di solito è un ex
calciatore o un trainer disoccupato, mai uno storico del football, come meriterebbe.
Lo speaker individuale – da Nicolò Carosio a Nando Martellini – è un lontano ricordo
paleotelevisivo, oltre essere testimone dello scorrere del tempo; è il personaggio che in fondo
conserva l’idea che il giornalismo, al di là dei giudizi meritocratici, sia la prima, nonché la più
longeva cultura del calcio: resta attiva ininterrottamente persino con guerre e pandemie dalle
pagine dei quotidiani alle apposite testate (i fogli rosa de «La Gazzetta dello Sport»), dalla
radiocronaca (seguitissima la rubrica «Tutto il calcio minuto per minuto») alle TV mirate e/o
generaliste, dagli investimenti miliardari condizionanti sia il calcio sia la cultura a esso
rapportata. In conclusione, il fatto che ancor oggi, al di là di TV e social, il calcio e lo sport in
genere siano ancora fruiti attraverso i giornali fa ben sperare in un proficuo rapporto con la
cultura medesima.

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