di Patrizia Monzeglio
Il dipinto “La persistenza della memoria” (1931), con gli orologi che si sciolgono come formaggio
fuso, è una delle opere più famose di Salvador Dalì, talmente nota da non venir neanche
inquadrata dalla cinepresa ma solo suggerita al pubblico quando, in un flashback, il giovane Dalì
trova per quel quadro la sua ispirazione. D’altronde non è l’arte ma la vita di Dalì che la regista
Mary Harron sceglie di portare sullo schermo in “Daliland”, un film dove anche la giovinezza del
pittore viene evocata con brevi frammenti inseriti in una storia tutta incentrata sul declino fisico e
artistico dello spagnolo nella fase finale della sua esistenza.
“Daliland” racconta la parabola discendente degli anni ‘70-80 quando l’eccentricità, l’irriverenza e il
vigore dell’artista finiscono col tramutarsi in una patetica rappresentazione del personaggio che
Dalì aveva costruito di se stesso, una maschera circondata da un mondo eccentrico e rapace che
viveva alle sue spalle e della luce riflessa della sua notorietà.
Ben Kinsley sceglie per il “suo” Dalì un’interpretazione che ne esalta il lato umano, giocando sulla
fragilità dell’uomo invecchiato, succube della moglie Gala e delle sue paure. L’attore confessa in
un’intervista “Ho potuto creare il mio Dalì, il mio ritratto e questo ha evitato che rimanessi
ammaliato e mi bloccassi di fronte alla prospettiva di doverne rendere tutti i manierismi fisici e
vocali”. Visto attraverso gli occhi esterni del giovane assistente James, il Dalì di Kinsley sa farsi
perdonare le sue debolezze, continuando a esercitare una certa fascinazione su chi gli sta accanto
e vede in lui l’uomo che, con la sua arte e la stravagante personalità, aveva segnato un’epoca.
“Daliland” non sarà un capolavoro ma ha la capacità di cogliere gli aspetti controversi della vita di
un personaggio famoso e lo fa con una buona resa scenica. Dei primi anni ‘30, che avevano visto
Salvador e Gala iniziare insieme la nuova vita, ci restituisce il rimpianto per una freschezza
irrimediabilmente perduta, nell’arte come nell’amore.
Barbara Sukova sa essere credibile nel ruolo di una Gala invecchiata, cinica e dura, ossessionata
dalla paura della povertà quanto il marito lo è della malattia e della morte. Ben Kinsley regge il film
con la sua grande capacità interpretativa. Gli altri personaggi sono figure di contorno di poco
spessore. Possiamo considerare “Daliland” un film interessante per chi ama i “biopic”, mancante
però di qualche tocco qui e là in grado di dare più profondità a una storia che tende a rimanere in
superficie. La regista cerca di compensare questa carenza con la ricercatezza dei costumi e
scene di decadente trasgressività per disegnare il colorato mondo che Dalì e Gala avevano creato
come “land” in cui far vivere i loro personaggi pubblici.
Visti o Rivisti per Voi: DalìLand, Ben Kinsley interpreta il ‘suo’ Dalì
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