di Patrizia Monzeglio
“Il tempo che ci vuole” è un grande omaggio a Luigi Comencini, non solo per il suo lavoro di
regista ma per il suo mestiere di padre, un mestiere difficile che ciascuno interpreta come sa e
come può, sotto l’occhio vigile dei figli.
La figlia che gli ha reso omaggio non è la più famosa, Cristina, ma la meno nota Francesca
Comencini che con questo film ha deciso di raccontare se stessa in una fase difficile della vita,
quando il forte legame con il padre e l’attrazione altrettanto forte per il cinema, fondendosi,
diventarono per lei l’ancora di salvataggio a cui aggrapparsi per dare un senso alla vita, per
inventarsi un futuro quando tutto ormai sembrava perduto.
Nel film, che racconta il suo difficile passaggio dall’infanzia all’età adulta, la regista ha privilegiato
interni sobri, minimalisti, quasi ascetici, contrapposti ad esterni di set cinematografici strabordanti
di colori, luci, rumori, movimenti. I primi sono i silenziosi testimoni delle paure di una bambina e
delle sofferenze di giovane donna, mentre i secondi sono il fantasmagorico contenitore di fantasie
dove tutto è possibile, dove l’immaginazione diventa rifugio per chi si sente a disagio nella realtà.
Quello fra Francesca e il padre Luigi, un Fabrizio Gifuni perfetto nella parte, è raccontato come un
rapporto a due, avulso dal contesto famigliare, che infatti non compare mai.
Il senso di fallimento della figlia non è estraneo al padre, che proprio per questo è in grado di
comprenderne a fondo il malessere. La scelta di condividerne i momenti più bui diventa l’unico
modo per trovare una luce in fondo al tunnel, per riprendere in mano la vita, la vita di entrambi,
perché l’una non può prescindere dall’altra.
Ciò che il film insegna infatti è l’importanza di esserci quando l’altro ha bisogno di noi, senza
troppe parole, esserci quando serve e per tutto “il tempo che ci vuole”.
La regista ha dichiarato in un’intervista «l’ho pensato come un film che da questa storia personale
parli a tutti, raggiunga un carattere di universalità».
Di “particolare” c’è il cinema con la sua magia, con il suo valore terapeutico, con la possibilità che
offre di abitare altri mondi, di vivere altre storie. Di “universale” c’è il legame con chi ami, con le sue
asperità caratteriali, con la sua salvifica vicinanza e comprensione. Sai che c’è, che ci puoi
contare, e sai anche che devi meritarti la sua fiducia. Di “universale” c’è anche l’insegnamento di
considerare i fallimenti come parte integrante della vita, come le malattie o gli incidenti. Si prova, si
fallisce, si ricomincia per far meglio, sempre guardando avanti.
“Il tempo che ci vuole”, presentato all’81^ Mostra del cinema di Venezia, ha messo in luce il
talento di Francesca Comencini e ci lascia un messaggio importante, quello di un padre-regista
che, pur amando appassionatamente il suo mestiere, afferma con convinzione «prima la vita, poi il
cinema! E se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema».
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