di Patrizia Monzeglio
Se ti insegnano fin da bambino a scegliere quale gattino far sopravvivere e quali altri mettere in un
sacchetto per farli annegare nel fiume, poi è difficile da adulto gestire i tuoi sentimenti, l’empatia
per gli altri. Anche a guardarla sullo schermo, pur sapendo che è finzione, la scena con cui si apre
il film “Non odiare” disturba. Il disagio che provoca dice però tanto del film perché subito dopo il
protagonista, ormai adulto, si trova di fronte a uno di quei dilemmi in cui non vorresti trovarti mai:
decidere della vita di un altro.
Il film di Mauro Mancini, presentato alla 77^ Mostra del Cinema di Venezia, racconta la storia di un
chirurgo che deve scegliere se salvare o no un uomo in punto di morte. L’istinto di medico lo
spinge a farlo senza pensarci un attimo ma la croce uncinata tatuata sul petto del ferito cambia le
cose. Simone Segre è ebreo, il padre era stato internato in un campo di concentramento.
Cosa vuol dire, direbbe qualcuno, è passata tanta acqua sotto i ponti, siamo a Trieste, nel 2020.
Invece la storia che vediamo sullo schermo ci dice che non è passata affatto. Intorno al
protagonista, oggi come ieri, l’odio razziale serpeggia, discrimina e trascina nel suo vortice anche
chi vorrebbe starne fuori, odiato non per quello che fa ma per quello che rappresenta.
Da un lato Simone Segre si trova a combattere con un senso di colpa che non riesce a superare,
dall’altro l’odio di cui è vittima non risolve il suo dilemma, anzi lo complica, perché le nostre
emozioni e i nostri sentimenti a volte sono complicati.
Alessandro Gassmann si cimenta in una parte non facile, tormentata, e ci riesce bene.
L’interpretazione di Simone Segre gli è valsa il Premio Pasinetti 2020 e il Premio Flaiano 2021.
Sappiamo che nei commenti ai film c’è chi dice “Gassmann non lo sopporto” così come
“Gassmann lo adoro”, prendendo posizione in base ad antipatie o simpatie, ma chi sa andare al di
là di questi superficiali giudizi può apprezzare la sua intensa prova attoriale. Gassmann interpreta il
ruolo consapevole di ciò che può significare il peso del passato, “La madre di mio padre era ebrea”
confessa l’attore “e la mia famiglia ha avuto due persone morte nei campi di concentramento”.
La regia privilegia i dialoghi asciutti, i lunghi silenzi, il gioco di sguardi. La fotografia enfatizza i toni
scuri e le ombre, riproducendo attraverso l’immagine quella chiusura al mondo, all’altro, al diverso
da sé attorno alla quale ruota la storia.
Non aspettatevi un “happy end”, non è questo il senso del film. Superare l’odio con il perdono a
volte è chiedere troppo, qualcosa che va oltre, mentre quest’opera si limita a indicare una strada,
quella di imparare a “non odiare”. Pur presentando qualche piccola, perdonabile ingenuità, il film di
esordio di Mauro Mancini merita di essere visto anche solo per chiederci “E noi al suo posto cosa
avremmo fatto?”. Al posto del chirurgo ebreo. Al posto del regista.
Per chi fosse interessato, il film è disponibile su RaiPlay.
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